Rabindranath Tagore, scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo indiano (Calcutta, 6 maggio 1861 – Santiniketan, 7 agosto 1941), Premio Nobel per la letteratura nel 1913, afferma: “Dormivo e sognavo che la vita era gioia, mi svegliai e vidi che la vita era servizio. Volli servire e vidi che il servire era gioia”.Quello che, insieme ad altri testimoni ci apprestiamo a raccontare, non è fantasia: è storia! Sono passati quindici anni, ma questo lasso di tempo è sufficiente, per raccontare un cammino affascinante fatto tutto lungo la strada del servizio. I primi passi li abbiamo percorsi insieme e ringrazio il Presidente e il Consiglio di Amministrazione che mi hanno dato l’opportunità di coordinare questa somma di memorie e di esprimere la mia personale. La costituzione di questa cooperativa la conosco molto bene per la concomitanza di due fatti: essere stato dipendente di Confcooperative Marche ed amico dell’allora giovane sacerdote don Claudio Giuliodori, oggi Vescovo di Macerata, che mi chiese di partecipare ad un incontro con Alberto Giuliodori dell’Associazione “A piene mani” di Osimo che non poteva più gestire, tutto il complesso delle attività ch svolgeva nei confronti dei soggetti diversamente abili, se non attraverso la costituzione di un’impresa. Erano gli anni in cui andava di moda costituire cooperative sociali e pochi si rendevano conto che una cooperativa era e resta, sempre, una società che a fine esercizio ha l’obbligo di redigere il bilancio, che deve chiudere in pareggio, altrimenti i soci debbono mettere proprie risorse per pareggiare le somme. Come movimento cooperativo eravamo molto esigenti con noi stessi e con chi si apprestava a costituire una cooperativa di qualsiasi attività ed in particolare di quelle sociali. Felice Scalvini presidente nazionale della Federazione delle cooperative sociali era particolarmente sensibile a questo genere di cooperative, ma proprio per questo, attento a qualsiasi scorciatoia, qualcuno, superficialmente avesse voluto prendere. Alberto Giuliodori mi aveva già dato il senso che conoscesse il problema ed i suoi rischi, compreso quello di un’eccessiva enfasi, presente nei giovani che, in questi anni, iniziavano a manifestare una particolare sensibilità nei confronti dei coetanei in difficoltà. Erano quelli gli anni in cui nel panorama economico e sociale delle Marche entrava in scena la cooperazione sociale come naturale evoluzione di un sistema, quello cooperativo, che dopo la fine della seconda guerra mondiale in ogni decennio aveva reso protagonista un comparto produttivo. Le cooperative, non si costituiscono per Decreto Legge come ebbe modo di dire in un’affollata assemblea di cooperatori il presidente della Regione Marche Adriano Ciaffi, ma per volontà di popolo ed in base ai bisogni che la società deve risolvere in quel momento. Secondo questa logica dagli ultimi anni della prima metà del XX secolo fino alla fine, nella nostra regione ogni decennio è stato caratterizzato dall’entrata sulla scena socio economica di un comparto cooperativo che renderà protagonista una determinata categoria sociale.

Negli anni ’50, poco dopo la fine di una guerra disastrosamente perduta, la gente aveva fame e costituiva le cooperative di consumo, della pesca per una categoria anch’essa, costretta ad operare un in condizioni di grande disagio, e di credito per dare alle piccole iniziative imprenditoriali quell’ossigeno (denaro) necessario per i primi passi. Con gli anni ’60, anni del grande esodo dalle campagne entra sulla scena un nuovo settore della cooperazione: quella agricola. Già fortemente isolati, per le caratteristiche proprie del lavoro dei campi, i contadini rischiavano di rimanere ancor più isolati e così intravidero nella cooperativa un soggetto economico capace di migliorare le loro condizioni con acquisti collettivi di concimi, mangimi e anticrittogamici a prezzi più vantaggiosi e con l’organizzazione della meccanizzazione auricolata, perché singolarmente molto costosa.
All’inizio degli anni ’70, con l’inurbamento delle città, derivante dall’abbandono del lavoro dei campi per i servizi ed il terziario, si manifesta una grande carenza di abitazioni. Sono gli anni in cui diventa protagonista la cooperazione edilizia per la costruzione della casa.
La metà degli anni ’70 si caratterizza per l’accentuarsi di una crisi economica ed occupazionale che investe soprattutto il pianeta giovanile all’interno del quale si stimano un milione e quattrocentomila disoccupati in tutta Italia dei quali il 60% tra diplomati e laureati. Molti giovani vedono nella formula cooperativa una via di sbocco alla disoccupazione ed in questi anni si costituiscono molte cooperative di servizi.
Al contempo si sviluppano anche, importanti cooperative nel settore agricole, a larga base sociale e si costituiscono i consorzi cooperativi a livello provinciale e regionale che possono affrontare l’organizzazione produttiva e commerciale agroalimentare, realizzando le tanto auspicate economia di scala.
Siamo giunti agli anni ottanta quando una crisi economica mette a nudo alcuni problemi strutturali ed altri gestionali di alcune aziende che cercano e spesso trovano, nella formula cooperativa, le soluzioni di alcuni loro mali: nascono le cooperative di produzione e lavoro che si rendono protagoniste della cooperazione degli anni ottanta.
Negli anni novanta, alla fine del secolo, la società si accorge che avendo spinto forte in avanti c’è chi è rimasto indietro: sono gli anziani, i disabili, le cosiddette categorie a rischio o sensibili. Nascono le cooperative di solidarietà sociale non solo per l’assistenza a questi soggetti, ma anche per il loro inserimento nel mondo del lavoro.
Ed è proprio in questi anni che si affaccia sul panorama socio-economico osimano questo gruppo di giovani animati dalla volontà di costituire una cooperativa sociale.
Dopo il primo incontro con Alberto Giuliodori volli conoscere questi giovani che erano disponibili a diventare soci di una cooperativa sociale di tipo B) che inseriva nel mondo del lavoro i portatori di handicap.
Ci incontrammo diverse volte. Subito emerse dal gruppo dei giovani interessati una particolare sensibilità nei confronti dell’handicap. Si percepiva il senso della solidarietà che erano capaci di trasmettere, solidarietà intesa come intervento in solido, mettendo mano al portafoglio ed offrendo la propria disponibilità al di sopra e al di fuori della “giusta mercede” che a fine giorno sarebbero riusciti a mettere insieme.
Si vedeva che non avevano paura di avviare un’impresa difficile, si capiva bene che questo gruppo aveva la solidarietà nell’anima e quando si ha solidarietà nell’anima … “il cor non si spaura”.

Marino Cesaroni
Direttore del quindicinale diocesano “Presenza”